Grandi Sculture: Cane di Alberto Giacometti
Figlio di Giovanni Giacometti, pittore post-impressionista
Studiò a Ginevra, poi a Parigi, sotto
il noto scultore Emile-Antoine Bourdelle, assistente del grande Rodin, che lo
oscurò (Bourdelle era ricercato per il suo bel monumentalismo ellenistico, con
cui arricchì alcune piazze francesi, ma non ebbe mai le considerazioni di cui
godeva il Maestro, e di questo soffrì per tutta la vita).
Giacometti ebbe un lungo periodo
surrealista (1928-1935, con un fugace
rientro nel 1938) da cui si distaccò per avventurarsi in un’espressione
propria, originale, realizzata attraverso la proposta di oggetti mobili e muti,
difficilmente identificabili, che si possono riferire a una ricerca fortemente
intellettuale del senso delle cose.
La proposta, poi, si sviluppò culminando nella realizzazione
di figure fisse, schematiche, ridotte all’osso, che trascinarono l’artista in
un precipizio esistenziale (e non esistenzialistico come voleva Sartre:
Giacometti non accettava affatto di vivere con rassegnazione e con immediata
reazione orgogliosa, con continue e fiere impennate della coscienza di fronte
all’ineluttabile, come voleva una faccia dell’esistenzialismo, quella più viva)
estremamente interessante.
Questo “Cane” scolpito nel 1951 (è al MoMa di New York,
mentre il “Gatto”, dello stesso anno e ancora più esile, è al Metropolitan),
più ancora delle figure filiformi di uomini in cammino, ha un messaggio
drammatico e urgente: è la contrapposizione dell’idea alla mancanza di senso
del tutto.
Lo rivelano le linee-forza della composizione, il carattere
della figura, la certezza del passo in avanti nonostante tutto, nonostante la
magrezza delle risorse, nonostante la disperazione, nonostante la pochezza
dell’uomo. Ben venga, dunque, anche un pizzico di presunzione, di baldanza, di
vanagloria: con tutto questo, la condanna all’illusione passa in secondo piano.
Il “Cane” è metafora di una sconsiderata schiena diritta,
bramata come una salvezza, da parte dell’esistenza, dell’esistere, dell’esserci,
del doverci stare. (Dario Lodi)
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